Albert Camus lo ha definito il vero profeta del XIX secolo. Grande pensatore e impavido esploratore degli angoli più oscuri della mente umana, Fëdor Dostoevskij è considerato il massimo rappresentante della letteratura russa. Ma anche uno scrittore capace di descrivere come pochi altri i sentimenti e le grandi contraddizioni che animano gli uomini.

A duecento anni dalla nascita, le sue opere ma soprattutto le sue prospettive filosofiche, etiche e religiose sono più attuali che mai.

Una vita ai margini

Scrittori si nasce non lo si diventa, soprattutto se la vita che il destino ha in riserbo per te è fatta di schegge e fratture. Secondo di sette figli, Fëdor Michajlovič Dostoevskij nasce a Mosca l’11 novembre 1821.

Il padre Mikhail è il primario dell’ospedale Mariinsky di Mosca mentre la madre, Maria Nechaeva, discende da una famiglia di mercanti moscoviti.

La vita familiare è scandita dall’organizzazione impartita dal padre, un uomo duro, arido di cuore al quale si contrappone la moglie, una donna attenta e amorevole. È proprio grazie a lei che l’infanzia rimarrà per l’autore il periodo più bello della sua vita. A quattro anni Maria insegna al piccolo Fëdor l’arte della lettura, servendosi della Bibbia, ma anche delle opere di Omero, Cervantes e Goethe.

Il 1837 è per Dostoevskij l’anno che segna l’entrata ufficiale in quel labirinto caotico e doloroso che è la vita. La madre muore di tubercolosi e il ragazzo reagisce con la prima delle numerose crisi epilettiche che lo accompagneranno per tutta la vita. Il padre precipita in quell’abisso di violenza e sopraffazione dell’altro da sé che lo porterà alla morte, avvenuta per mano dei contadini, stanchi delle sue continue angherie.

L’equazione perfetta: Delitto e castigo

La vita dell’autore russo è scandita da malattia, debiti di gioco, prigione e amori turbolenti. Un quadro tragicamente perfetto per chi è dotato di un talento unico nel suo genere. Dostoevskij è il Cristoforo Colombo dell’anima umana. Il primo che riesce a narrare l’inconfessabile, a esplorarlo senza cadere nel convenzionale e senza trovare espiazione nel conforto religioso.

Fëdor scrive senza sosta, aiutato anche da una profonda conoscenza di tutte le classi sociali sovietiche. Durante i quattro anni di carcere in Siberia lo scrittore vive a stretto contatto con i rivoluzionari del popolo ma, in vecchiaia, frequenta il palazzo dello zar Alessandro II e la famiglia imperiale.

Da “Povera Gente” in poi lo scrittore regala all’umanità le pietre miliari della letteratura mondiale: Delitto e Castigo, I Demoni, I fratelli Karamazov, Il Giocatore, L’Idiota. Dostoevskij scrive per sfuggire ai debiti di gioco ma lo fa anche perché è incuriosito dal funzionamento della mente umana e dalla ricerca della soluzione salvifica, riassunta in quella che potremmo definire l’equazione perfetta dell’esistenza: al delitto deve corrispondere sempre un castigo.

Interprete del baratro

Dostoevskij è riuscito a comprendere con una lucidità mai appannata le questioni cruciali del suo tempo e a tracciare la traiettoria esistenziale delle persone e della loro evoluzione. I suoi romanzi sono popolati da personaggi in preda all’angoscia, al tormento e schiavi delle loro debolezze. Ogni protagonista è ferito mentalmente ed emotivamente corrotto e spezzato: la scarsa autostima del principe Myškin, il senso di colpa di Raskòl’nikov, l’ansia e l’ossessione di Mitja Karamazov. Ma non pensiamo a personaggi cupi e senza speranza. Ognuno è pronto ad attraversare il suo personale inferno emotivo per ricercare un ideale fatto di giustizia e libertà morale.

Nel 1881 Fëdor Dostoevskij muore a causa di un’emorragia polmonare aggravata da una crisi epilettica. Il corteo funebre è un’autentica apoteosi. Migliaia di persone camminano accanto al feretro, consapevoli del valore e della grandezza di uno scrittore diventato il simbolo del suo tempo.